Assistenzialismo a tutti i costi.

Ormai non ci sono più dubbi, in Italia è tornato il culto per l’assistenzialismo statale e a tutti i costi.

Per assistenzialismo (cito la definizione data da Treccani) si intende “la accentuazione delle attività assistenziali della pubblica amministrazione (…) ritenuta dispersiva di risorse e atta a deprimere lo spirito di intraprendenza, di rischio, di cambiamento che dovrebbe caratterizzare i cittadini e i soggetti economici di un sistema dinamico e moderno”.

Parafrasando è “la degenerazione del sistema di assistenza pubblica e sociale, in cui lo Stato interviene soprattutto con l’erogazione di fondi a cittadini o enti, senza un piano efficace per il loro utilizzo e allo scopo di acquisire consensi”.

Appare evidente, pertanto, come – specie negli ultimi anni anzi negli ultimi mesi – si sia stati letteralmente inondati da provvedimenti a cascata che, di fatto, hanno accentuato questa vena assistenzialistica del nostro sistema.

Lo Stato assistenziale o welfare – come viene chiamato ora – prevede, tra l’altro, che i soldi vengano erogati gratuitamente dallo Stato, sotto forma o di benefici, o di sussidi o di bonus o di agevolazioni fiscali che, di fatto, alla lunga si rivelano essere uno specchietto per le allodole.

Se la domanda è “la povertà in Italia esiste?”, la risposta non può che essere sì.

Vi è, infatti, da un lato una povertà che viene definita dagli studiosi “fisiologica” in qualunque sistema economico e vi è, dall’altro, una povertà che scaturisce invece dalle scelte di politica economica di un paese.

E così, sulla base dei dati a disposizione, ma senza tuttavia fare troppe considerazioni sulle cause della “povertà”, i politici si sono lanciati in spericolate proposte per ridurre il fenomeno.

Come ha risposto infatti la politica in questi ultimi anni per diminuire i livelli di povertà?

Partendo dal presupposto che ci sarà sempre un livello fisiologico di povertà non riducibile, bisogna ammettere che siamo ben lontani dal poter delineare il perimetro della povertà in tutte le sue sfaccettature.

Tuttavia i numeri diffusi dall’Istituto di Statistica forniscono solo un pretesto alla demagogia della politica, sempre in clima elettorale e, quindi, a caccia di consensi, per mettere in atto questo assistenzialismo a tutti i costi, senza però che la politica si sia posta e si ponga il problema di indagare su quali siano state e siano le cause di questa povertà e di disagio sociale e come fare per ridurli il più possibile.

Se a queste situazioni si risponde solo con prestazioni in denaro, è molto probabile che queste somme verranno impiegate non già per migliorare il tenore di vita della famiglia o per adempiere ai propri doveri come per esempio pagamento delle tasse e dei debiti contratti per far fronte alla situazione di disagio economico, bensì tale prestazione in denaro verrà utilizzata per aumentare un clima di stallo economico all’interno dei contesti in cui il beneficio è stato erogato e, tale prestazione si rivelerà, di fatto e per dirla in gergo, come “non politically correct”.

La quasi totalità tuttavia delle risposte di tutti i governi in questi ultimi anni e direi mesi da marzo 2020 in poi sono state finora esclusivamente monetarie.

Soluzioni standardizzate per tutti, al posto di interventi di sostegno mirati in termini di servizi, educazione o prevenzione.

Un esempio su tutti il reddito di cittadinanza, ovvero un aiuto economico che tampona il problema, ma non lo estirpa alla radice vista la distribuzione territoriale della povertà e considerato che i livelli economici per essere considerati poveri sono differenti a seconda che si viva al Nord, al Centro o al Sud o che si abiti in città o in campagna.

Prevedere l’erogazione di somme standard sull’intero territorio nazionale non risolve il problema a chi vive in una città del Nord, mentre chi vive in un paesino del Sud ha – di fatto – ottenuto un vantaggio maggiore in termini di potere d’acquisto.

Appare evidente, dunque, che dare soldi e non servizi non aiuta a uscire dalla povertà anzi la alimenta ed alimenta il fenomeno del lavoro sommerso per cui, pur di non perdere il sussidio che fa comodo a tutti, si preferisce rimanere nella precarietà e nel lavoro sommerso nella convinzione – che poi diviene un diritto – che lo Stato debba intervenire sempre e comunque in favore delle fasce più deboli della popolazione, continuando – magari ad nutum – ad erogare contributi e sussidi vari!

Siamo rimasti, infatti, uno dei pochi paesi a credere che per aiutare una persona in difficoltà basti un’erogazione assistenziale e non l’accompagnamento o il sostegno per renderla economicamente attiva.

La logica assistenzialistica che ha guidato finora gli interventi della politica in questo campo muove dalla convinzione diffusa che per ridurre le disuguaglianze e contrastare la povertà si debbano sempre e comunque rivendicare i propri diritti; mai tuttavia vi è stato un riferimento ai doveri di un cittadino.

Ma non si può parlare di diritti senza citare anche i relativi doveri.

Il welfare state dovrebbe essere rivisitato a favore di altri modelli di welfare che sappiano tenere conto di altri valori umani. Valori come la meritocrazia, la competizione economica, l’investimento in infrastrutture ed il dovere di ogni cittadino di dover contribuire attraverso il proprio lavoro al bene e alla cosa pubblica e non piuttosto ai “diritti” intesi a volte come “pretese”.

Occorrono interventi strutturali su tutto il sistema e a più ampio respiro che coinvolgano certo anche il sistema giustizia attraverso una riforma seria del processo, riforma che deve essere fatta da chi il processo davvero lo svolge ogni giorno nelle aule di udienza e non piuttosto da burocrati del diritto che, a conti fatti, svolgono la professione dietro magari una scrivania e che del processo conoscono solo la teoria studiata sul codice e non quello “vissuto” nelle aule di udienza.

Noi ci siamo!

Eugenia Acquafredda

 

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