Morire sul lavoro!

La cronaca ogni giorno inesorabilmente ci racconta di storie di morti sul lavoro.

L’ultima in ordine di data è quella della ragazza di 22 anni Luana D’Orazio che è rimasta schiacciata in un macchinario nell’azienda di Prato dove lavorava, lasciando la sua famiglia e un figlio di soli 5 anni avuto in tenera età.

Chi scrive non intende soffermarsi sulle numerose tematiche che ruotano intorno alla sicurezza sul lavoro, bensì sul linguaggio usato da certi giornalisti per raccontare la vicenda e distogliere l’attenzione dal problema sicurezza per puntare invece su altri elementi per raccontare la storia.

La Stampa – noto quotidiano del nostro panorama giornalistico e della carta stampata – così apre la notizia della morte della giovane Luana D’orazio: “Occhi da cerbiatto, capelli lunghi da fata, fisico perfetto, Luana era bella come un’attrice – aspirazione lontanamente realizzata, come comparsa – ma per guadagnarsi da vivere faceva l’operaia in un’azienda tessile dove ha perso la vita come in una precaria filanda ottocentesca. Non aveva neppure 23 anni e le sue foto su Instagram e Facebook raccontano la vita di una bella ragazza, in posa per un selfie, con le amiche o con il fidanzato”.

Sembra quasi che il fatto che l’ennesima vittima del mondo del lavoro sia una bella ragazza, renda la notizia più triste o più grave rispetto a quello che sarebbe stato il disvalore e il dolore per la morte magari di una donna più avanti con l’età e semmai meno attraente.

Leggendo l’articolo sembra quasi che la donna, per il solo fatto di essere bella, giovane, attraente e con il sogno di fare l’attrice, sia stata colpita da un destino atroce molto di più magari di un’altra donna con caratteri estetici diversi.

Sembra quasi che Luana non avrebbe dovuto fare affatto l’operaia in quanto – per la sua bellezza – sarebbe stato più giusto proiettarla verso il mondo dello spettacolo magari sul trono di qualche programma televisivo.

L’atrocità della morte di un operaio sul lavoro non è più o meno triste a seconda che colpisca un uomo o una donna ovvero una donna giovane e bella piuttosto che una meno bella e che non sognava magari di fare l’attrice.

Anche in questo vi è una discriminazione di genere nel linguaggio che, chi scrive, non intende accettare.

Se fosse stata la vittima magari in sovrappeso, meno carina e più avanti con l’età, come avrebbe esordito nel suo articolo la giornalista inviata speciale della Stampa?

La scelta sembra quasi voler trattare la morte sul lavoro come un mero fatto di cronaca e basarlo solo su canoni estetici che non hanno nulla a che fare con i numeri impietosi che raccontano – dall’inizio dell’anno – di oltre 120 vittime.

La lotta per i diritti sociali passa anche dal linguaggio di genere e, quindi, quando si scrive si dovrebbe cercare di basare la notizia sui fatti e non su elementi che, di certo, non danno giustizia all’ennesima vittima che forse è morta una seconda volta nel sapere che è stata ricordata per la sua bellezza e non piuttosto per essere morta sul lavoro.

Noi ci siamo!

Eugenia Acquafredda

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