Buon governo e riordino amministrativo

Già nei primi decenni del II secolo a. C. il Siracide osservava: «Un governatore saggio educa il suo popolo, il governo dell’uomo di senno è ordinato.» (1) Per l’autore biblico l’ordine è, dunque, un elemento fondamentale del buon governo. E l’ordine, con ogni evidenza, si riferisce ad una buona amministrazione, ad un ordinamento coerente e chiaro. Se prendiamo invece la nostra Costituzione, in particolare il titolo V intitolato «Ordinamento della Repubblica – Le regioni, le province, i comuni», senza voler nemmeno entrare nel merito delle competenze rispettive e dei rapporti degli enti territoriali con l’autorità centrale, salta subito agli occhi un forte elemento di disordine amministrativo: le Province e le Regioni obbediscono a concezioni dello Stato diverse e contrapposte, centralista la prima, regionalista la seconda.

Nemmeno la pseudo riforma del 2012 ha risolto il problema: le province, come ectoplasmi, continuano a vivere una risicata vita accanto agli altri enti territoriali. Ma il disordine amministrativo diventa ancor più grave quando si passa alla suddivisione delle competenze tra Stato e Regioni. Limitiamo l’esame alla materia ambientale. Lo studioso Salvatore Settis, tuttora inascoltato dalla classe politica, tornando per l’ennesima volta a parlare di paesaggio e, in particolare, ad affrontare la questione relativa all’impatto dell’edilizia sul paesaggio e sul consumo di suolo, pone l’accento su quello che possiamo considerare un peccato d’origine in materia di norme: il divorzio tra tutela dell’ambiente e politica urbanistica. Per la verità, già nella legislazione d’epoca fascista, all’epoca assolutamente all’avanguardia, c’era stato un «mancato raccordo fra tutela dei paesaggi (legge Bottai, 1939) assegnata alle Soprintendenze e pianificazione urbanistica controllata dai Lavori Pubblici.» (2) Entrambe le leggi, però, contenevano dei correttivi contro l’eccessivo consumo di suolo, sancendo la supremazia dello Stato sull’interesse privato. Successivamente, quello che era un peccato veniale è diventato un peccato grave con la Costituzione Italiana che «assegnando allo Stato la tutela del paesaggio (art. 9) e a Regioni e Comuni le competenze urbanistiche (art 117) ha ulteriormente moltiplicato le competenze.» (3) Fino poi a giungere all’attuale situazione normativa, frutto del pressappochismo della casta politica e della perdita del senso dello Stato, vale a dire «al disordinato accavallarsi delle nozioni giuridiche non solo di paesaggio (di competenza statale), ma anche di ambiente (con un proprio Ministero) e di suoli agricoli (con relativo Ministero).» (4)

La ricostruzione postbellica fu di fatto l’occasione per il saccheggio del territorio. Di grande rilievo, anche sotto il profilo della teoria economica ed etica della decrescita, l’annotazione fatta per inciso da Settis: fu proprio allora, nella famelica e indiscriminata ricostruzione seguita al dopo guerra, che si è radicato uno dei pregiudizi con cui più bisogna fare i conti e che è duro a morire, cioè che l’edilizia sia un fattore trainante dell’economia. E’ vero invece che spazi notevoli di occupazione utile si aprono nella manutenzione, nella ristrutturazione energetica degli appartamenti e in generale nella riconversione ecologica degli edifici, come ha dimostrato l’economista Maurizio Pallante nei suoi saggi. (5) Peraltro, i dati fornitici dall’annuario dei dati ambientali 2017 a cura dell’ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale) destano ulteriori e seri allarmi: il consumo di suolo in Italia non solo non si è arrestato ma al 2016 circa 23.000 chilometri quadrati del territorio nazionale (che ne conta 301.340) sono ormai persi. Inoltre i valori percentuali più elevati di suolo consumato si registrano nel Nord (Veneto e Lombardia in testa), mentre a livello provinciale spiccano Napoli e Milano con oltre il 30% di suolo cementificato. La quota di territorio con copertura artificiale in Italia è stimata per il 2012 pari al 7% del totale contro il 4,1% della media dell’Unione Europea. Si aggiunga che già nel 2012 il 10% del territorio italiano era a rischio idrogeologico, il 44% a elevato rischio sismico, mentre i danni si calcolavano in 3,5 miliardi di euro l’anno. Le alluvioni, unitamente alla siccità e al ridursi dei bacini di acqua dolce, gli ennesimi disastri e le vittime sono la conseguenza di un mancato governo del territorio da parte dello Stato. La proposta di Settis per superare questo vicolo cieco è, non a torto, quella «di ricomporre in uno questi aspetti, avendo di mira il principio costituzionale dell’utilità sociale.» (4) Sta di fatto che la sovrapposizione di competenze tra enti territoriali e Stato costituisce non solo un caso di cattiva amministrazione, ma anche un fattore che contribuisce al dissesto del territorio. La sovrapposizione delle competenze ritarda infatti gli interventi urgenti e rende poco chiari i livelli di responsabilità.

Per ovviare a questo disordine amministrativo va presa in seria considerazione la proposta di una riforma del titolo V della Costituzione (che, ricordiamo, fu modificato in senso assai peggiorativo con la riforma del 2001 dall’allora governo di centro-sinistra) che preveda l’introduzione delle bioregioni. La nozione di bioregione è stata lanciata da uno degli esponenti di spicco dell’ambientalismo americano, Kirkpatrick Sale. «Per bioregione si intende una parte della superficie della terra i cui confini sono definiti sia da fattori naturali che culturali. Ogni bioregione è circoscritta da caratteristiche naturali ben determinate come il clima, il suolo, la fauna, la flora, ecc. e da specificità culturali della popolazione come la sua tradizione, la sua storia, la lingua. Nel caso specifico dell’Italia penso che il vostro territorio possa essere suddiviso in bioregioni facendo riferimento a fiumi storici e millenari che sgorgano a valle delle Alpi e dagli Appennini. Per fare un esempio concreto si possono considerare il Tevere e i suoi affluenti come una bioregione naturale.» (5)

In altre parole, al posto delle grosse e grasse Regioni introdotte nel 1972 e della eccessiva ripartizione del territorio in Provincie, città metropolitane e comunità montane, si potrebbe prevedere un solo grado intermedio tra Stato e Comuni costituito dalle Bioregioni (all’incirca 50 Bioregioni contro le attuali 20 Regioni e le 110 Provincie), che rifletterebbero meglio la storia e l’assetto geo-culturale dei territori. In tal modo si ridurrebbero i costi, le inefficienze e il disordinato moltiplicarsi dei centri decisionali e di potere, che portano al proliferare di abusi, di colpevoli ritardi, di immancabili disastri. Riassume Marcello Veneziani: “Le regioni sono delle costose forzature che assemblano realtà storiche e geografiche eterogenee: Emilia e Romagna, Trentino e Alto Adige, Friuli e Venezia Giulia, sono solo le più evidenti. E le province furono una forzatura ottocentesca sul modello delle prefetture napoleoniche. In realtà ci sono aree intermedie tra le province e le regioni che riflettono la storia, la vita e l’assetto geoculturale del nostro Paese. Sono 50/60 realtà ben più coerenti. Per esempio, le Puglie sono almeno tre: il Salento, la Daunia e il Barese. Ma lo stesso direi della Sicilia, vera Trinacria, o la Campania – tra sanniti-irpini, salernitani e napoletani – la Lucania spaccata tra Cilento e Basilicata,e l’alto Lazio o Tuscia e il basso Lazio ciociaro, più l’area romana. E la Toscana, con la Maremma che guarda a Siena, Pisa che guarda a Livorno e alla Lucchesia, e l’area fiorentina- aretina. E l’Emilia diversa dalla Romagna e dal Parmense” (6)

L’idea di un riordino territoriale dello Stato è stata poi autorevolmente rilanciata nel 2014 dalla Società Geografica Italiana che ha proposto una nuova scientifica e ragionevole divisione del territorio in 36 dipartimenti. La proposta, che parte dalla constatazione della mancanza in Italia di un disegno complessivo e aggiornato, prevede che le nuove Regioni sostituiscano le Regioni e le Province esistenti e siano il più possibile autosufficienti (anche fiscalmente). (7)

Questa proposta è destinata a restare solo un sogno? Purtroppo sì, finché avremo una classe politica, che fa orecchi da mercante e che, democraticamente, fa prevalere gli interessi di bottega sul bene comune.

Sandro Marano

  • Siracide, 10,1;
  • Salvatore Settis, “Paesaggio: ecco come diamo i numeri”, in Sole 24ore del 24.02.2013;
  • ibidem;
  • ibidem;
  • Maurizio Pallante, Meno e meglio, Bruno Mondadori, 2011;
  • Kirkpatrik Sale, “Inventiamoci le bioregioni”, in L’Italia settimanale del 19 gennaio 1994;
  • Marcello Veneziani, “Via le Regioni e via le Province” in il Giornale del02.2012;
  • Ecco quale sarebbe la mappa delle nuove Regioni secondo la Società geografica italiana:
  1. Aosta, Verbano-Cusio-Ossola, Novara, Biella, Ivrea
    2. Torino
    3. Cuneo, Asti, Alessandria
    4. Milanoe Pavia
    5. Bergamo, Como, Lecco, Varese, Sondrio, Monza-Brianza
    6. Piacenza, Cremona, Parma
    7. Brescia, Verona, Mantova
    8. Trento e Bolzano
    9. Venezia, Padova, Vicenza, Treviso, Belluno
    10. Trieste, Udine, Pordenone, Gorizia
    11. Ferrara e Rovigo
    12. Genova, Savona, Imperia
    13. Bologna, Modena, Reggio Emilia
    14. Ravenna, Rimini, Forlì Cesena
    15. Pisa, Livorno, La Spezia, Lucca, Massa e Carrara
    16. Firenze, Arezzo, Pistoia, Prato
    17. Siena e Grosseto
    18. Ancona, Pesaro-Urbino, Macerata, Ascoli Piceno, Fermo
    19. Perugia e Terni
    20. Roma, Viterbo, Rieti
    21. Latina, Frosinone, Isernia
    22. L’Aquila, Pescara, Chieti, Teramo
    23. Napolie Caserta
    24. Salerno, Benevento, Avellino
    25. Potenza e Matera
    26. Foggia e Campobasso
    27. Bari e Bat (Barletta-Andria-Trani)
    28. Lecce, Taranto, Brindisi
    29. Cosenza, Catanzaro, Vibo Valentia, Crotone
    30. Reggio Calabria
    31. Messina
    32. Catania e Siracusa
    33. Ragusa, Agrigento, Caltanissetta, Enna
    34. Palermo e Trapani
    35. Cagliari, Carbonia-Iglesias, Medio-Campidano, Oristano
    36. Sassari, Nuoro, Olbia-Tempio

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